Io giudico un ristorante dal suo pane e dal suo caffè.
Lo diceva il buon Burt Lancaster, il Principe Don Fabrizio di Salina de Il Gattorpardo.
Pur non condividendo (non mangio pane a tavola e non bevo il caffè subito dopo i pasti), apprezzo il senso critico dal quale scaturisce tale dichiarazione, che rivela senza dubbio un’importante attenzione per i particolari.
Io un ristorante ‘lo giudico‘ dalle sedute e dalla collocazione dei servizi prima, dalla tovaglia e dal coltello dopo, dall’acqua e dall’olio poi. Sicuramente, azzardando un autoanalisi, tutto questo è frutto dall’intreccio che ne vien fuori se penso che sono architetto, nata sotto il segno della vergine e dipendente dal cibo.
Però pensateci: potete trovarvi a cena nel ristorante più In della città ma se state scomodi, se sentite lo sciacquone del wc ogni cinque minuti, se appena vi muovete rimanete intrappolati con le gambe, se non riuscite a tagliare con facilità la vostra bistecca e se invece di un dissetante bicchiere d’acqua vi ritrovate a deglutire un aspirina… beh, decisamente, non sarà questa la serata più bella della vostra vita. O forse sì.
Per quanto riguarda l’olio… beh, dovrete aspettare il mattino successivo.
E avete capito bene il perché. Credo.
Ritornando alla citazione (e chiudendo), credo che il caffè debba essere gustato -solo- al bancone di un bar. Riguardo al pane, come non essere d’accordo.
Se poi nel cestino vi arriveranno più tipi di pane, rigorosamente freschi e, perché no, tiepidi, riuscirete ad apprezzare anche quell’eco strana che arriva dall’angolo e il coltello da servizio che non taglia nemmeno la Vivin C ‘pronta all’uso’ che vi hanno appena versato nel bicchiere.
Garantito!
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