C’è una scena semplice, quasi banale, da cui nasce questa riflessione: un bancone di un bar, due birrette, una chiacchiera leggera che pian piano diventa densa. Si parla di cibo, di quanto questo mondo stia diventando complicato, di panini e di pizze imperdibili, di luoghi “da provare assolutamente”, liste salvate, post condivisi, reel consumati, articoli di giornale consumati. A un certo punto, Gianmarco riflette sull’importanza dell’hype nel mondo del food. E lì qualcosa si incastra.
Maledetto hype, quell’eccitazione collettiva che nasce online e cresce come un’onda. Non descrive un piatto: lo mitizza. Non informa: amplifica. Trasforma un’esperienza culinaria in un evento culturale, un panino in una conquista, una pizza in un rito. E nel frattempo alimenta un meccanismo preciso: desiderio, attesa, idealizzazione, culto. Non mangiamo più “qualcosa di buono”, ma andiamo in pellegrinaggio verso “qualcosa di leggendario”. E, come ogni leggenda, rischia sempre di non essere all’altezza del racconto.
E allora la mente torna indietro. Ripenso a certi panini rincorsi come fossero miracoli. Alle pizze “imperdibili”. Ai piatti costati file interminabili, liste d’attesa, chilometri consumati. Ripenso alla fame — più mentale che fisica. E poi penso alla sensazione finale: “Buono, sì. Ma non così incredibile”. Poi, però, onestamente, mi dico la verità: erano piatti fatti bene. Curati. Materie prime di qualità. Perché allora non mi avevano travolto? Non è solo una percezione personale: la psicologia del consumo parla di aspettativa edonistica. Più un’esperienza viene esaltata, condivisa, celebrata, più il cervello costruisce uno standard quasi impossibile.
È una specie di placebo del gusto: non basta convincere il palato, bisogna superare l’immaginario collettivo costruito intorno a quel piatto.
E qui entra in gioco anche il modo in cui oggi viviamo il piacere: anticipato, programmato, consumato prima del tempo. Ci emozioniamo in anticipo e arriviamo al momento vero già “dissipati”. Quando finalmente tocca alla realtà… semplicemente, questa non può reggere. Certi piatti soni davvero mediocri? E qui sta il nodo. Non è che quei piatti siano mediocri. È che arriviamo a giudicarli dopo averli già consumati simbolicamente: prima ancora di assaggiarli, li abbiamo saturati di significato. Quando finalmente li incontriamo davvero, non assaggiamo ciò che sono, ma ciò che dovrebbero essere — secondo l’idea che il nostro cervello si è fatto di loro.
Quindi: il problema non è il piatto. Il problema siamo noi.
Viviamo in un tempo in cui non mangiamo più soltanto per nutrirci, e nemmeno solo per piacere: mangiamo per certificare un’esperienza. Ogni piatto è già gravato da parole, toni assoluti, classifiche, storytelling. Lo abbiamo osservato, discusso, dissezionato. Quando arriva in tavola, deve reggere il confronto con un mito digitale prima ancora che con il nostro gusto reale. E non è solo colpa nostra individualmente: è il modo in cui è costruita oggi la comunicazione gastronomica. La retorica dell’eccellenza costante, l’ossessione del “mai visto prima”, la gara a chi trova “il migliore”. Più che cibo, è una competizione culturale.
Ed è qui che nasce il paradosso: anche quando è davvero straordinario, la nostra mente lo riporta a una normalità forzata. Non perché lo sia davvero, ma perché nel linguaggio del web lo straordinario è diventato routine. Se tutto è “il migliore”, alla fine nulla lo è più.
Siamo ancora capaci di goderci il cibo senza filtri? O arriviamo talmente sazi di aspettative da non lasciare spazio al piacere?
Il web ci addestra a inseguire e a confrontare più che a vivere: non andiamo a mangiare, andiamo a verificare.
Non assaggiamo, valutiamo.
E in questo meccanismo, il gusto — quello vero, quello che nasce nel momento, nell’odore che sale dal piatto, nel contesto, nella compagnia — scompare. E lo dico anche con una certa autoironia, perché spesso io stessa mi ritrovo incastrata in questo meccanismo: tra mille progetti (e mille fallimenti) sono riuscita a trasformare perfino il cibo in “obiettivo”: liste di cose da assaggiare, posti da spuntare, pellegrinaggi gastronomici da mettere a curriculum emotivo.
Forse dovremmo tornare a sorprenderci. A scoprire per caso. A raccontare un piatto perché lo abbiamo vissuto, non perché era “da provare”. Ogni tanto basterebbe una cosa semplice e rivoluzionaria: sedersi, respirare, assaggiare con sincerità. Perché molti piatti, ancora oggi, sono davvero straordinari. Siamo noi che, spesso, non siamo più (pre)disposti a riconoscerlo.
—> A seguire, una selezione di pellegrinaggi fatti in questi ultimi anni. Secondo voi, se mai ci fossero, quali piatti hanno rotto il muro dell’hype e quali, invece, non hanno soddisfatto le nostre aspettative?




