Dove l’Albania incontra la Calabria: Kamastra a Civita, una storia di pietra, vento e cucina

C’è una Calabria che parla un’altra lingua, che danza al suono di tamburi antichi e profuma di spezie d’Oriente. È la Calabria arbëreshë, nata dall’esilio e dalla tenacia, figlia di un popolo che nel Quattrocento attraversò il mare, fuggendo l’Impero Ottomano per trovare riparo tra le gole e le alture del Pollino.

Qui, tra i vicoli stretti e le case in pietra di Civita — uno dei borghi più belli d’Italia — la cultura albanese ha trovato terra fertile. Si è intrecciata con quella calabrese come si intrecciano le mani nelle danze tradizionali: con rispetto, con forza, con memoria.

La lingua arbëreshë si custodisce come un canto familiare, i costumi si indossano nei giorni solenni, ma è a tavola che l’identità diventa corpo, sapore, racconto.

La cucina albanese in Calabria è rustica e profonda. È una cucina di terra e di resistenza, fatta di pane cotto al forno a legna, verdure ripiene, carni stufate, formaggi vivi di pascolo ed erbe selvatiche. Un linguaggio antico, dove ogni piatto è un frammento di memoria, una storia raccontata.

Tra le pietre millenarie di Civita, proprio in Piazza Municipio, sorge Kamastra: nato nel 1995 dall’intuizione di Enzo Filardi — avvocato, poeta e custode della tradizione — il ristorante vive negli spazi di un’antica filanda degli anni Cinquanta. Le sue volte in legno e gli archi in mattoni raccontano ancora, silenziosi, il tempo.

Qui il cibo non si serve: si tramanda. Partiamo con l’antipasto Kamastra che è quasi un rito: prosciutto di montagna, capicollo, pancetta e formaggi locali, accompagnati da sott’olio, sott’aceti e frittelle calde con ’nduja — sapori decisi, senza mediazioni, che parlano di una terra ruvida e generosa.

Continuiam con i cavatelli alla “nenesa”, piatto antico dei pastori del Pollino, mescolano erbetta selvatica e amaranto, in un equilibrio silvestre e avvolgente.

I filatelli alla ’nduja, pasta fresca con pomodoro fresco e il fuoco morbido della ’nduja, raccontano invece la Calabria più ardente e diretta.

Il capretto al tegame alla civitese e il capretto arrosto, cucinati con lentezza e dedizione, tra aromi antichi e silenzi profondi, chiudono con meraviglia. Il tutto accompagnato da un bicchiere di Magliocco, vino scuro e schietto, che profuma di bacca e sottobosco.

Nel 2015, Slow Food ha riconosciuto Kamastra come esempio virtuoso di cucina sostenibile e identitaria. Ma qui, più che un riconoscimento, conta il gesto quotidiano: quello di chi, da decenni, tiene viva una lingua anche attraverso il cibo.

Kamastra è tappa obbligatoria a Civita, il paese in cui ci siamo sentiti forse più accolti in assoluto, come se fossimo ospiti attesi più che semplici visitatori. Ma ciò che sorprende davvero è l’abbraccio del paese intero: nei bar e nelle piazze, tra i volti incontrati per strada, nei colori dei mercati, Civita ti libera dal concetto di turista e ti fa figlio del mondo, fin dal primo passo.

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